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                       RAYMOND SAVIGNAC 1                   

Parigi 1907 - Trouville 2002

Manifesti molto grafici, ma non banali, studiati. Parte dall’idea, la grafica è meno importante.

TROUVILLE (AFP) - L'affichiste Raymond Savignac, dessinateur d'affiches qui ont fait le tour du monde, est mort mercredi à 95 ans à son domicile de Trouville (Calvados). Dessinateur de plus de 600 affiches, dont celle de "La Guerre des Boutons", il avait connu la consécration en 1949 avec la sympathique vache rose de "Monsavon" et était devenu un des champions de la publicité d'après-guerre, tout en y apportant une note d'humour, l'une des constantes de sa création. Né à Paris le 6 novembre 1907 au sein d'une famille modeste, Raymond Savignac devient dessinateur-calqueur à l'âge de 15 ans, avant de réaliser du dessin publicitaire animé chez Lortac à partir de 1925, puis du dessin publicitaire non animé dans différentes firmes. Sa carrière démarre en 1935, lorsqu'il devient le collaborateur de Cassandre, qui lui cède la réalisation d'une affiche pour le roquefort "Maria Grimal", la première de Savignac affichée sur les murs. Deux ans plus tard, il vante les performances de l'autorail Paris-Lille qui reliait alors les deux villes en 2H25. Après la guerre et la vache "Monsavon", Savignac n'aura pas cessé d'être présent sur les murs, les palissades et dans le métro. Le zèbre de Cinzano, le mouton de la quinzaine de la laine, la gitane de la régie française, le monsieur au long nez qui hume air-wick, la vache coupée en deux du pot-au-feu Maggi, la bille "Bic", "Aspro" terrassant la migraine d'un homme dont la tête est traversée par un cortège de voiture, "Non à l'autoroute rive gauche" en 1971, autant d'oeuvres éphémères qui n'ont pas été oubliées, car les affiches de Savignac restent des modèles de gaieté, d'esprit et d'efficacité. Raymond Savignac, installé à Trouville depuis 1979, où une promenade porte son nom, avait publié son autobiographie en 1975. Le musée de l'Affiche à Paris lui avait consacré sa première grande rétrospective en 1982.
(Le monde 6/11/2002)

Intervista di G. Bauret, apparsa su "Zoom" n. 22, settembre 1982

Zoom: Che effetto le fa questa sua retrospettiva?
Savignac: Mi ringiovanisce. Ho ripetuto spesso, e lo confermo, che la miglior galleria è la strada; pure, mi fa piacere veder appesi trentacinque anni di lavoro.
Zoom: A che anno risalgono i pri mi manifesti in mostra?
Savignac: Al 1934 circa, fino ad arrivare al 1981.
Zoom: Che tipo di manifesti faceva allora?
Savignac: Dei cartelloni pubblicitari. Lavoravo con Cassandre, che era il direttore artistico di un'agenzia, l'Alliance Graphique, da lui creata insieme a Loupot. Il mio primo lavoro, se ben ricordo, fu per un libro di Paul Morand edito da Grasset: un interno, per le vetrine. A quei tempi si lavorava parecchio per gli editori, che commissionavano grandi manifesti. Oggi questo tipo di clientela è del tutto scomparso. A riguardarlo ora, quel manifesto per il libro di Paul Morand mi sembra orrendo, e ancor oggi sono perseguitato dal rimorso, perché ho reso un pessimo servizio a questo scrittore.
Zoom: Qual'é il primo lavoro che le sembra perfettamente riuscito?
Savignac: Allora si facevano i cartelloni pubblicitari direttamente sul formato 1,20 x 1,60 m, mentre prima avevo lavorato esclusivamente su piccolo formato. Quando mi sono ritrovato di fronte a una superficie simile, riempirla mi è costata non poca fatica! Era ancora poco chiaro, non del tutto ordinato, ma secondo me il primo successo era innanzi tutto quello di vincere il grande foglio bianco.
Zoom: Niente in particolare la portava a scegliere il mestiere di cartellonista, comunque.
Savignac: In effetti, no. Mio padre gestiva un bistrot, e quel che accade dietro a un banco non mi conduceva a tutto ciò. È stata la strada a orientarmi verso questa scelta. Nella strada ho passato infatti molto tempo negli anni della giovinezza, come tutti i figli di commercianti.
Zoom: E la preparazione tecnica?
Savignac: Sono un autodidatta, mi sono formato da solo disegnando di sera. Mi divertivo a riprodurre i disegni altrui: era bello e interessante. A quindici anni mi rifiutai di tornare a scuola, e così ho dovuto mettermi a lavorare. I miei genitori avevano molte conoscenze, e riuscirono a farmi entrare in quello che oggi si chiama RATP, un laboratorio di disegno. Avrei passato due anni immerso in una noia mortale se non avessi incontrato lì un tipo incredibile che mi ha dato qualche "dritta". Quando ho lasciato RATP, senza alcun diploma, mi ha presentato al suo amico Lortac, che faceva disegni animati. Questi è stato tanto gentile da prendermi nella sua équipe. Non sapevo fare gran che, ma per me è stata una tappa importante: ho conosciuto molti disegnatori e per la prima volta in vita mia -avevo diciotto anni - ho sentito parlare di Derain, di Matisse, di Picasso. Contemporaneamente, per le strade vedevo i cartelloni di Cassandre, Loupot, Carlu, e qualcuno anche di Cappiello, che ai tempi era ancora un po' in ombra. Mi pareva che i cartellonisti avessero la ragione dalla loro: in un'unica immagine dicevano più di quanto non riuscisse a dire Lortac nei suoi lunghi cartoni animati. A quel punto ha preso a svilupparsi in me il gusto della sintesi, e poi anche il rifiuto dell'aneddoto. Andavo spesso al cinema, e ora considero miei maestri i comici americani, e soprattutto Chaplin e Keaton. Erano abilissimi nei tempi, e sapevano chiudere prima che la gag cadesse. Talvolta la preparazione era lunga, insistita, ma poi la gag era rapida e viva, e non ci si tornava più sopra. Peggio per chi non capiva: non si cantava messa per i sordi! Nell'attuale comicità francese vedo il contrario: non si delinea nulla in anticipo, ma la gag viene ripetuta fino all'esasperazione, ad esaurimento. Dopo il servizio militare ho lasciato Lortac: avevo ventun'anni. Ho voluto tentare la fortuna nella pubblicità, poiché lo trovavo un mestiere interessante, e ho fatto dei bozzetti per poter presentare un mio dossier, come si dice adesso. Ho vissuto momenti assai difficili, per la verità.
Zoom: Allora si lavorava direttamente per il cliente, più che attraverso le agenzie.
Savignac: L'agenzia non aveva assolutamente l'importanza che ha oggi. I cartellonisti lavoravano con i tipografi, e questi avevano una loro clientela. In effetti, stavano alla base della comunicazione; ora le cose sono completamente cambiate. Era un periodo assai vivo; si usciva appena dalla prima guerra mondiale con una gran voglia di vivere, di cancellare tanto sangue sparso. Non era difficile ottenere sovvenzioni da quanti si interessavano all'arte e non esitavano a mettersi a disposizione dei creatori. Volevano che la loro epoca fosse caratterizzata da una sorta di mecenatismo. Così, ad esempio Charles Peignot è stato in grado di fondare la rivista che è diventata il nostro vangelo, "Arts et Métiers Graphiques", dovendo soddisfare un'unica condizione: quella di creare un prodotto capace di distinguersi per la sua originalità. Oggi accade il contrario: per riuscire bisogna identificarsi con la maggioranza.
Zoom: Si ha anche l'impressione che tra le due guerre si manifesti una tendenza alla sintesi nell'insieme della creazione artistica. Tutto pare marciare allo stesso ritmo: la pittura, le arti applicate, l'architettura...
Savignac: Secondo me tutto è cominciato intorno al 1908, con l'arrivo di Diaghilev, e ha trovato la sua massima espressione nella grande mostra delle Arti Decorative. Ma in fondo personaggi come Loupot, Carlu, Cassandre non amavano molto lo stile "Arts Déco". Avevano fondato l'U.A.M. (Union des Artistes Modernes), con architetti, decoratori, tipografi, e con il loro impulso l'arte a poco a poco ha smesso di essere decorativa per tornare ad essere un linguaggio. Era in ogni caso un'epoca essenziale caratterizzata anche dal fatto che gli artisti erano degli atleti completi. Seguivano le cose dalla a alla zeta, e non erano specializzati come gli americani.
Zoom: L'incontro con Cassandre dev'essere stato un avvenimento importante nella sua vita, immagino.
Savignac: in un momento di disperazione sono andato a trovarlo all'Alliance Graphique: ne sono venuto via con l'ordine per un manifesto e per un dépliant, e mi sono sentito rinascere. Prima ho lavorato come esterno per l'Alliance Graphique, poi nel suo atelier di Versailles. Non aveva nulla di professorale. Era un mirabile esempio vivente, e bastava guardarlo per comprendere il suo rigore, il suo gusto per la perfezione, la sua efficacia.
Zoom: Comunque tutto ciò in nulla corrispondeva allo spirito che ha poi segnato il suo lavoro, lo stile che la contraddistingue.
Savignac: In quel periodo fumavo le sue cicche, facevo del cattivo Cassandre. Ero meno intelligente e più frivolo di lui. Mi ha aperto veramente gli occhi il suo manifesto in tre sequenze : "Dubo, Dubon, Dubonnet": era veramente sorprendente. Si riallacciava all'umano, e soprattutto al Guignol, e il Guignoi mi andava alla perfezione - nel bistrot di mio padre ne vedevo sfilare tanti! Era come ritrovare il mio passato.
Zoom: Lei si è orientale sul cartellone di carattere popolare, mentre Cassandre restava legato all'estetica dell'immagine, a forme purificate.
Savignac: Cassandre non si preoccupava solamente delle forme ma anche della massima efficacia possibile: direi l'essenziale. Allora si procedeva per associazioni di idee: si tendeva a fondere il prodotto e l'idea che esso evocava. Tutto era estremamente lineare, grafico. Ho ritenuto necessario andare oltre. Per esempio ho scoperto che era possibile riunire due idee in una soltanto: l'impatto era più forte. In un certo senso il prodotto è diventato il mio personaggio principale in molti manifesti. In effetti era la più importante preoccupazione della maggior parte dei cartellonisti: Loupot, Cassandre, Carlu.
Zoom: Come avveniva la commissione? Vi si lasciava una certa libertà?
Savignac: Ci si preoccupava innanzitutto di fare un buon manifesto.
Zoom: Quali criteri definivano buono un manifesto?
Savignac: La sorpresa, la lettura immediata, l'intelligenza, la comprensione del prodotto e poi la sua sublimazione.
Zoom: Inizialmente il manifesto sembra innanzitutto bello in sé, poi ci si spinge oltre: si da un'idea del prodotto. L'approccio conosce un'evoluzione, e lei sembra incarnare questa evoluzione in quanto in ogni manifesto lei prevede una sorta di scenario.
Savignac: In fondo ho tentato di stabilire una conversazione rapida, addirittura telegrafica, con
l'uomo della strada. Volevo andare oltre il semplice segnale, che in sé può anche costituire un buon manifesto, ma non basta. Bisognava parlare anche alla mente e al cuore. A ciò tendono i Guignol e i comici americani.
Zoom: Lei ha volutamente conservato uno stile naìf.
Savignac: È in effetti il principio che sta alla base del mio schema. Un'altra scoperta ho fatto che mi è servita molto: la mente umana procede dal complesso al semplice, e io ho fatto il contrario. Forse è più interessante se parto da uno schema, cui bisogna aggiungere qualcosa perché prenda vita. Ecco dunque l'ideogramma: non l'ho inventato io, è antico quanto la Cina stessa. Sia Cassandre che Carlu già l'avevano sperimentato: cominciava a svilupparsi nella stampa il sistema del disegno senza didascalia.
Zoom: Quali cartelloni vorrebbe vedere esposti con la massima evidenza?
Savignac: Ho fatto all'incirca cinquecento cartelloni, e non è poi molto, visto che Cappiello ne ha fatti tremila. Se riuscissi a riunirne soltanto una ventina di veramente buoni sarei soddisfatto. Non ho mai considerato il mio lavoro dal punto di vista estetico, non ho mai ricercato un piacevole rapporto di colore. Sempre ho voluto lavorare sul significato, sul servizio da rendere, sull'efficacia. Ma con un certo stile e un rapido ammiccare, una lieve ironia
Zoom: A quanto pare lei da una preferenza assoluta al manifesto murale.
Savignac: Sì, e più in generale a tutto ciò che è verticale.
Zoom: Lei ha comunque lavorato anche per la stampa.
Savignac: Sì, ma pochissimo.
Zoom: E non con opere a colori.
Savignac: Ho collaborato infatti per qualche tempo con l'"Express", ma ho interrotto la collaborazione per recarmi negli Stati Uniti. Mi hanno fatto varie offerte anche per il "Nouveau Candide", ma la cosa non poteva funzionare perché non lavoro sull'attualità. E poi in Francia il disegno non è mica tanto amato.
Zoom: Lei continua a fare manifesti.
Savignac: Sì, soprattutto per campagne di dimensioni limitate, per clienti come il Musée de l'Homme. E' un contesto che lascia ancora una notevole libertà.
Zoom: In Francia il manifesto ha conosciuto anche un periodo piuttosto difficile.
Savignac: Ci sono stati dieci o quindici anni molto difficili, infatti.
Zoom: Come mai ora tende a tornare in auge?
Savignac: Si sente il bisogno di una comunicazione più soggettiva, mentre prima si pretendeva di rifarsi solo all'oggettività, al realismo. Forse oggi ci si accorge che nulla è più irreale del realismo.
Zoom: Cosa ne pensa dell'attuale pubblicità?
Savignac: Mi stupisce sempre vedere come i clienti accettino campagne che sono talvolta assolutamente illeggibili e confuse. Il messaggio si disperde in un gran ciarlare. Mi sembra migliore la mia teoria, secondo cui "meno si mostra e più si dice". Ho sempre amato la battuta, e certuni l'hanno maneggiata in modo mirabile. Io ho cercato di applicarla alla grafica.
Zoom: Di recente lei ha reclamizzato la campagna Citroen per l'agenzia Séguéla.
Savignac: Ho seguito in questa occasione un percorso opposto a quello che seguo solitamente. Ho cominciato col preparare i disegni, e gli slogan sono venuti dopo l'immagine. Per la prima volta dopo tanto tempo si lascia parlare il disegno - e a parer mio non abbastanza, poiché i titoli sono enormi. D'altro canto si è partiti da un segno e non dal catalogo o da un'illustrazione. Io sono convinto che così si riesca a penetrare più a fondo, e con maggior forza. Il personaggio principale è stato il marchio. Ho fatto quel che i fotografi non sono in grado di fare, innanzi tutto perché non hanno strumenti che lo consentono, ma anche perché raramente sono dotati di capacità di sintesi. Inizialmente il progetto della campagna pubblicitaria non era tanto chiaro, ma fortunatamente il nuovo direttore commerciale della Citroen era disposto a correre dei rischi. Ora penso che quanto ho fatto sia debitamente apprezzato. Ma è stato un parto lungo e difficile. Dopo tanti anni, mi accorgo a riuscire ancora a disorientare il prossimo, ed è buon segno. Ne sono felicissimo. Peraltro non cerco affatto di disorientare il pubblico, ma solo di far sì che si fermi a riflettere.
Zoom: Ha fatto qualche esperienza nell'insegnamento?
Savignac: Mai, prima di tutto perché non ho pazienza, e poi perché non credo affatto nell'insegnamento in questo campo. Se un individuo è intelligente, sensibile, dotato, non ha alcun bisogno degli altri. Se è piuttosto limitato, la cosa non cambia. Qualche volta mi è capitato di trovarmi di fronte a un pubblico in ascolto, e ho sempre avuto paura di lasciarmi condizionare. In fondo sono molto egoista, e tento di proteggermi. Se cominciassi a interessarmi a questo tipo di attività, non potrei più fare quel che mi pare.
Zoom: Pure, lei ha acquisito una esperienza formidabile nel settore della comunicazione visiva, sicché potrebbe benissimo esprimere il suo punto di vista teorico.
Savignac: Su questo tema ho scritto un libro. Un homme et son métier, edito da Robert Laffont, in cui in toni leggeri e divertenti narro la mia lenta evoluzione. Fatto questo, che ognuno ne assorba quel che vuole, e se la sbrogli come può. Ripetere senza fine le stesse cose non serve a nulla. Degas soleva dire: "bisogna scoraggiare i principianti", e io sono perfettamente d'accordo.
Zoom: Lei pensa il manifesto più come disegno che come pittura.
Savignac: Infatti il disegno è la spina dorsale dell'immagine. Il colore è un elemento che si aggiunge all'espressione per renderla più vigorosa e piacevole. Molti dei miei manifesti sono finiti con il disegno. D'altro canto, cerco di armonizzare i colori con il prodotto. Se ad esempio faccio qualcosa per il latte, non mi viene neanche in mente di ricorrere a dei rossi violenti. Peraltro, al giorno d'oggi si vedono in giro parecchie aberrazioni di questo tipo.
Zoom: Ama i caratteri tipografici?
Savignac: Sono abbastanza abile nel servirmene, ma non ho un senso spiccato del lavoro tipografico. Per la verità ricorro a caratteri assai semplici, e studio soprattutto il problema dello spessore dei pieni e delle proporzioni, fatta eccezione per il caso Citròen, perché non mi è stato concesso intervenire.
Zoom: Attualmente è piuttosto penosa la presenza schiacciante della parte tipografica nei manifesti.
Savignac: Credo che la cosa si riconnetta al fatto che le automobili hanno completamente invaso la strada ed è stato pertanto necessario sistemare sempre i testi in alto. Perché per i clienti contano solamente i testi. Se ad esempio si disegna un personaggio che prende il volo, il testo dovrebbe essere piazzato in basso e servire da supporto. Perfino in un caso siffatto ci impongono di fare il contrario: il soggetto resta schiacciato da titoli enormi, e l'immagine finisce col non avere più alcun senso. Si preme contemporaneamente l'acceleratore e il freno: è insensato.
Zoom: Tante assurdità la rendono infelice?
Savignac: No, poiché il mestiere che faccio è tra i più divertenti che ci siano. E poi i miei cartelloni sono sempre nella strada, ed è questo che conta.


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